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dalla classe alla corporazione - Associazione Romano Canosa per gli Studi Storici

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Premessa a cura dell’Associazione

A partire dagli anni Novanta Romano Canosa matura un malessere crescente verso Magistratura Democratica (MD), l’associazione nella quale egli non soltanto si era riconosciuto per più di un ventennio, ma dove aveva anche profuso le proprie energie intellettuali ed ideali in un rapporto di identificazione molto intenso. Il malessere si tramuta nei primi anni duemila in un distacco, che è tanto rabbioso quanto appassionata era stata la milizia civile tra i suoi ranghi. Le ragioni del distacco sono sparse dal giudice di Ortona tra le righe di un articolo polemico, che è rimasto finora inedito.

Ci sembra giusto pubblicare questo testo sconosciuto nella speranza di incoraggiare un’operazione squisitamente storica, la cui rilevanza ci appare almeno duplice. Da un canto il documento costituisce un tassello per ricostruire la biografia di Canosa nella sua interezza e densità. Se l’attività all’interno di MD offre, infatti, un tratto caratterizzante del profilo giuridico e culturale di Canosa lungo circa un quarto di secolo, non meno cruciale appare allora stabilire la scaturigine della rottura, le motivazioni di un cambiamento di direzione nella sua traiettoria. Si tratta forse di un’abiura della propria cultura giuridica o della decisione di riposizionarsi nel campo della politica e di ridefinire un’appartenenza avvertita ormai come anacronistica? Oppure viceversa – come l’inedito induce a postulare – alla radice vi sarebbe la difesa delle ragioni originarie di MD, condensate in un libertarismo egualitario di cui l’associazione avrebbe smarrito il filo? A questi interrogativi, che qui volutamente si estremizzano e ipostatizzano, ci pare si debba rispondere con la pazienza dello scavo, della ricerca, della genealogia attenta.

D’altro canto, il documento si carica di senso solo e soltanto se è calato nella sua temperie, se viene restituito, quindi, alle coordinate spazio-temporali che lo producono e ai conflitti di quel frangente. Una biografia - si sa - è illeggibile se disincagliata dalla rete delle relazioni e dai campi di forza che di volta in volta attraversano ciascuno di noi. Di conseguenza, esso sollecita una riflessione su MD ponderata e al riparo, beninteso, dalle strumentalizzazioni del discorso politico sulla giustizia. Al di là delle interpretazioni più retrive ed interessate, è del tutto evidente la cogenza assunta in Italia dal rapporto tra il campo giuridico e quello politico durante tutta la duratura transizione dalla cosiddetta Prima Repubblica alla Seconda. Forse, si potrebbe addirittura risalire all’indietro fino alla stagione del terrorismo per periodizzare i primi segnali di un corto circuito che mette a dura prova la cultura della Sinistra. Il pensiero vola alle origini del pentitismo.

In ogni caso, ci pare che questi temi meritino un approfondimento, al quale speriamo possa essere funzionale l’inedito di Romano Canosa.


DALLA CLASSE ALLA CORPORAZIONE
Lo strano cammino di Magistratura Democratica dalle origini ad oggi
Saggio inedito, Milano, 2004

E' generalmente riconosciuto che tutte le organizzazioni politiche in senso lato (partiti, movimenti, gruppi ecc.), dominati esclusivamente o in modo assolutamente prevalente da preoccupazioni "democratiche", qualora dalle mutevoli vicende della vita degli stati siano messe in condizione di esercitare in tutto o in parte il "potere", tendano a far prevalere la loro ragion d'essere, e cioè le finalità egualizzanti ("democratiche") rispetto a quelle "garantistiche" ( cioè di libertà per tutti, dominati e dominanti, amici o nemici, ricchi e poveri, convergenti o dissenzienti).
Anche se questa "legge" ha celebrato i suoi fasti peggiori nelle vicende successive ad alcune grandi rivoluzioni (quella di Ottobre in particolare), ciò non toglie che essa tenda sempre ad operare (ovviamente con effetti incomparabilmente meno devastanti) ogni qualvolta un certo fondamentalismo "democratico" si avvicini all'area del potere e riesca in qualche modo ad entrare nella sua cittadella.
Questo saggio si propone di mostrare come essa abbia operato anche all'interno di Magistratura Democratica nel corso degli anni, dalla iniziale emarginazione alla definitiva consacrazione come struttura portante del potere giudiziario nel nostro paese. Sul fatto che Magistratura Democratica sia un gruppo "politico" non sembra possano esservi dei dubbi.
Strutturato sul modello del PCI (comitato centrale, direzione, segretario generale), al PCI-DS vicino da sempre (ben tre suoi segretari generali sono stati eletti in parlamento nelle liste di tale partito), da esso, sia pure con alterne vicende sempre "sponsorizzato", M.D. ha rappresentato un unicum nei sistemi giudiziari delle democrazie rappresentative europee e ad essa si sono ispirati nel corso del tempo movimenti di magistrati di "sinistra" di altri paesi.
Inoltre il gruppo si è sempre posto obiettivi in senso lato "politici", al di fuori e al di sopra dell'operato dei suoi aderenti nella loro quotidiana attività professionale, ha tenuto regolarmente congressi in nulla diversi da quelli dei partiti o dei movimenti, ha fissato delle linee di politica giudiziaria per i suoi iscritti ed ha tenuto regolarmente "convegni ideologici" per la verifica di tali linee.
Parimenti indubbio è il suo carattere "democratico" nel senso sopra precisato.
Il primo "convegno ideologico" tenuto dal gruppo a Pisa nell'aprile 1971 aveva indicato in modo fermo i punti che i giudici democratici consideravano irrinunciabili, anche se gli accenti erano stati diversi da sezione a sezione.
Quella toscana, la più radicale insieme a quella romana, aveva affermato che la repressione seguita all' "autunno" caldo non aveva costituito un fatto nuovo ed imprevisto, ma era stata la manifestazione di una  tendenza sempre esistita ed una componente permanente del sistema politico.
Ad essa avrebbe dovuto essere opposta una "politica della libertà" ( non generale, ma di classe), da perseguirsi, per quanto concerneva la magistratura attraverso
" 1) l'attacco ai centri di potere all'interno dell'ordine giudiziario per mezzo di modifiche legislative e di prassi sui seguenti punti principali: assegnazione degli affari giudiziari, potere di avocazione dei procuratori generali, struttura gerarchica del pubblico ministero, esclusiva dipendenza della polizia giudiziaria dalla magistratura, rotazione dei magistrati di cassazione, 2) la critica pubblica dell'operato dei magistrati che controbilanci i condizionamenti cui essi sono sottoposti dal sistema per mezzo della formazione scolastica ricevuta, dell'ambiente di ufficio, dell'ambiente sociale cui appartengono, della stampa che leggono e della stessa cultura giuridica".
La relazione presentata dalla sezione milanese aveva rivendicato anch'essa la necessità che il giudice democratico desse il suo apporto alla emancipazione dei ceti subalterni, senza tuttavia che le sfuggissero le difficoltà dell'operazione:

"Il contributo all'emancipazione che il giudice può dare, posto come è istituzionalmente al servizio di uno stato borghese, è oggi soprattutto difensivo. Si tratta di far leva sulle garantite libertà civili e politiche e ancor più sul programma emancipatorio-egualitario di cui all'art. 3 della Costituzione per eliminare o ridurre al minimo gli impedimenti legali ad una crescita politico-sociale del proletariato e delle sue organizzazioni, i cui fattori determinanti si trovano altrove, nelle strutture materiali della società. Un giudice borghese, in quanto tale, non può costruire il socialismo; può però valorizzare al massimo libertà universali e programmi egualitari, in modo da facilitare l'opera e le lotte di chi per il socialismo lavori. A tal fine si tratta di interpretare le varie libertà costituzionali nella prospettiva più tipicamente democratica ed egualitaria. Il diritto non può creare ostacoli alla emancipazione di tutti i lavoratori; dove ne crea, con la oppressione diretta o con la protezione ad oltranza di interessi precostituiti, può e deve ritenersi incostituzionale".
La sezione romana, infine, aveva proposto esplicitamente la "contestazione del ruolo" da parte del "giudice democratico". Questa doveva essere effettuata attraverso la negazione costante da parte dei magistrati dei 'valori assunti come assoluti che dominano l'interpretazione delle norme giuridiche'; la denuncia dei 'meccanismi insiti nell'apparato giudiziario' e il collegamento dei magistrati con le lotte esterne.
La riflessione collettiva fatta a Pisa era stata riassunta nell'assemblea tenuta a Roma nel dicembre successivo, al termine della quale era stata approvata una mozione che, dopo essersi soffermata sulle caratteristiche di classe della giustizia, sul riconoscimento della possibilità di fornire un contributo reale all'avanzamento del movimento popolare anche attraverso una nuova politica del diritto e sul riconoscimento che i problemi giudiziari non dovevano essere trattati come meri problemi tecnici, discussi tra specialisti, ma portati all'interno del "movimento" per "avviare un processo di riappropriazione popolare dei temi della giustizia", affermava che obiettivo politico del gruppo era "la realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento di tutela degli interessi delle classi dominanti e a renderla invece funzionale alle esigenze di eguaglianza, partecipazione ed emancipazione speciale ed economica delle classi lavoratrici"(1).
Un altro dato di fatto parimenti incontestabile è che Magistratura Democratica sia stata e continui ad essere l’unica "produttrice di ideologia" all'interno (ed anche all'esterno) della magistratura italiana, per quanto questa caratteristica si sia andata fortemente appannando in questi ultimi tempi.
Gli altri gruppi che fanno parte dell'Associazione Nazionale Magistrati infatti o non si sono mai interrogati sul loro ruolo o, se lo hanno fatto, non hanno mai prodotto qualcosa sui cui valesse la pena di soffermare l'attenzione.. Lo stesso giornale dell'A.N.M. "La Magistratura", nel dopoguerra ricco di fermenti e di discussioni, si è ormai ridotto da tempo ad un bollettino di notizie, neppure tanto "fresche", intercalate da scritti di occasione, il più delle volte di desolante banalità, o dalla pubblicazione dei verbali delle riunioni del comitato direttivo centrale, altrettanto banali ed ancor più noiosi.
Pertanto, piaccia o non piaccia, è Magistratura Democratica che, a partire dai primi anni Ottanta, ha offerto a tutta la magistratura italiana, forse all'insaputa di entrambe, la "cultura" della quale ogni gruppo professionale ha bisogno per riconoscersi come tale.
Ovviamente, per assolvere a questo compito, M.D. ha dovuto mutare molte delle sue impostazioni originarie, la conservazione delle quali avrebbe reso impossibile l'esercizio della egemonia su tutta la  corporazione.
Forse perché ritenuta in concreto irrealizzabile, forse anche perché considerata da qualcuno inutile nella imminenza di "mutamenti rivoluzionari", forse infine perché da sempre utilizzata come parola d'ordine dagli ambienti più conservatori della magistratura ( i quali, in concreto, erano poi ben lieti di rinunciarvi ogni qualvolta il sistema politico rivolgeva loro "richieste" in tal senso), sta di fatto che l'indipendenza, all'inizio degli anni Settanta, era considerata, dalla magistratura di sinistra, come un'aspirazione secondaria, rispetto a quelle ben più pressanti della "democrazia" e della "libertà" (anche se quest'ultima era intesa in maniera assolutamente prevalente come libertà dei ceti subalterni).
Questa gerarchia degli obiettivi cominciò a subire dei mutamenti a partire dall'inizio degli anni Ottanta.
Lentamente cominciarono ad essere abbandonate le istanze "libertarie" che avevano occupato, insieme a quelle "democratiche", il davanti della scena per quasi tutto il decennio precedente.
Poiché la critica da parte di M.D. delle sentenze "inique" e degli arresti "facili" (la cosiddetta "interferenza") era il comportamento del gruppo che più dava fastidio alle altre correnti, essa venne piano piano lasciata cadere.
Questa scelta, di per sé, non era un male (non era "bello" assistere allo spettacolo quasi quotidiano di giudici che criticavano pubblicamente altri giudici per le sentenze da loro emesse). Essa, tuttavia, fu accompagnata da qualcosa d'altro che un male era sicuramente: le tematiche della "libertà", che bene avrebbero potuto essere coltivate anche al di fuori delle "interferenze", vennero mano a mano trattate anche esse con un distacco sempre maggiore.
Questo abbandono, che in alcuni avvenne attraverso prassi giudiziarie ispirate esclusivamente ad esigenze di difesa sociale, in altri ebbe luogo in modo culturalmente più elaborato.
Il giudice Senese, ad esempio, in un intervento del 1987, dopo essersi soffermato sulla necessità che a ciascun giudice fosse attribuito un "potere sovrano non delegato" e che fosse realizzata una "tutela effettiva dell'indipendenza della magistratura e di ciascun magistrato",, scriveva:
"Il popolo sovrano rinvia in tal modo ad un universo culturale che va al di là delle contingenti manifestazioni della volontà politica. L'istituzione giudiziaria ha una vocazione privilegiata a far riferimento a questo tessuto culturale... La mediazione non deve avvenire solo con i valori della cultura giuridica, ma con i valori fondamentali del patto -dotati di forza giuridica spesso superiore- e attraverso di essi, con la cultura collettiva, che è oggi opera di tutti, in ciò manifestandosi l'effetto di lunga durata della Rivoluzione dell'89... Questa attenzione ai valori basilari del patto, può costituire la tensione culturale e politica attraverso la quale soltanto, ai giorni nostri, il giudice può cogliere, nell'universo frastagliato e caotico dei frammenti di comando, le regole da applicare al caso concreto... In questa prospettiva l'attività giudiziaria...può rivelare potenzialità unificanti, aprire la strada ad una nuova, più realistica e solo tendenziale ricerca di certezze del diritto, affidata assai più al pluralismo, al carattere diffuso della giurisdizione, ai suoi contrassegni di razionalità e persuasività come istanza ultima di. controllo della correttezza delle decisioni che non alla pretesa di porsi come l'unica fedele registrazione di una pretesa volontà generale predata"(2).
Se Senese andava avanti, qualcun altro andava invece indietro nella ricerca di una nuova frontiera giudiziaria.
Il giudice Franco Ippolito, ad esempio, assegnava ai magistrati il compito di "difendere lo stato contro l'oligarchia" e si soffermava a lungo sulla necessità che essi non trascurassero nessuna delle istanze egualizzanti ("democratiche") presenti nella carta costituzionale. A suo dire, la tendenza oligarchica alla fine degli anni Ottanta era andata pericolosamente confermandosi ed accelerando, accompagnata da una cultura che consacrava come valori esclusivi il profitto, la selezione affidata al mercato, la diseguaglianza, l’affievolimento della dimensione pubblica in ogni campo.
Secondo Ippolito, la carta costituzionale aveva invece fatto una scelta antitetica all'abbandono degli interessi deboli e, in un sistema di costituzione rigida come quella italiana, la scelta del Costituente non era solo un programma politico, ma un "patto democratico", norma suprema che vincolava l'interprete e lo obbligava a sottoporre a controllo critico le scelte di volta in volta dal legislatore ordinario:
"A chi domanda -continuava Ippolito- se servono ancora i giudici, ci sembra dunque di poter rispondere che il loro ruolo è più che mai essenziale in una democrazia il cui progresso si misura precisamente dall'espansione dei diritti e della loro giustiziabilità' (Ferrajoli). Essere magistrati, consapevoli del proprio ruolo istituzionale e della doverosità di esercitare e praticare la propria indipendenza... vuol dire principalmente assicurare promozione e prestare tutela giurisdizionale a quei diritti liberali e sociali, non mercantili e non negoziabili, sanzionare quei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale proclamati dal Costituente, concorrere alla realizzazione di quella 'cittadinanza piena' (politica, civile e sociale) a cui la Repubblica si è obbligata nei confronti di ogni componente la collettività"(3).
Assai più proiettata sui temi della "eguaglianza" che su quelli della "libertà" fu anche la relazione svolta dal giudice Livio Pepino al congresso di Magistratura Democratica, svoltosi a Chianciano nell'autunno del 1993.
Pepino nell'occasione affermò che il "complesso intreccio di promozionalità e garantismo", tradizionalmente proprio dei giudici progressisti, non era, a ben guardare, venuto meno, anche se il "mutevole combinarsi dei due profili" aveva indotto gli "osservatori ed i suoi stessi interpreti a privilegiare l'uno sino ad offuscare l'altro". Secondo il giudice torinese, segretario nazionale di M.D., gli obiettivi della giurisdizione in una "democrazia maggioritaria" erano in primo luogo quello di "garantire il pieno e libero sviluppo della dialettica politica contro ogni ipotesi di riduzione autoritaria del confronto". Seguiva quello di "garantire il diritto dei cittadini alla legalità, anche e soprattutto nei confronti dei poteri forti, sia privati che pubblici". Questi poteri avevano avuto negli ultimi tempi in Italia una "espansione selvaggia" tale da imprimere la loro impronta sull'intero sistema politico. In queste condizioni la giurisdizione veniva ad assumere un ruolo non "soltanto di tutela della legalità esistente, ma altresì di promozione della legalità irrealizzata". Nell'opera di "minimizzazione del potere" un posto di rilievo andava riconosciuto anche al diritto penale, nonostante le riserve ancora esistenti su questo punto nella "cultura progressista, spesso ancorata ad antiche diffidenze sul punto". Terzo compito fondamentale della giurisdizione era infine quello di operare come "garante e promotrice del consolidamento e dello sviluppo dei diritti sociali di cittadinanza, intesi come condizione fondamentale" della vita civile:
"La novità -si legge nella relazione- sta nel mutato rapporto di tali bisogni (e dei loro portatori) con le istanze istituzionali, caratterizzato da una inevitabile contrazione dei canali di rappresentanza delle minoranze. La marginalizzazione farà necessariamente confluire sul giudiziario le richieste di tutela là inascoltate: soggetti ed interessi alla ricerca di riconoscimento e legittimazione, quanto più saranno privati del canale politico, tanto più ricorreranno alla giurisdizione. Il sistema giudiziario diventa così uno strumento di intervento diretto e di partecipazione dei cittadini. Ciò non significa ovviamente attribuire alla magistratura un ruolo di tramite ( o di protagonista) in politiche sociali, o addirittura in politiche di minoranza, ma acquisire consapevolezza di tale funzione emergente, al fine di esercitarla in modo adeguato"(4).
Come si vede, in questo programma di gestione del sociale, da parte dei giudici, che non è azzardato definire totalizzante, non solo manca quasi del tutto un riferimento a quello che è sempre stato il loro tradizionale specifico terreno di intervento, vale a dire al potere attribuito ai giudici, e solo a loro, di privare i cittadini della libertà, ma, con il riferimento al diritto penale come uno degli strumenti di egualizzazione della società, si aprono le porte a scelte gravi e ad avventure pericolose. Una presa di posizione dei giudici progressisti che accanto al terreno della "democrazia", si fosse soffermata anche su quello delle "Libertà-garanzie" sarebbe stata assai più efficace per indurre i membri della corporazione a muoversi con cautela sul difficile percorso loro prospettato. Ed invece essa manca o è ridotta a stanca ripetizione di affermazioni fatte con ben altra convinzione, in un passato che diventa sempre più remoto.

Non a caso la relazione, nella parte dedicata ai processi di Tangentopoli e al modo in cui in essi era stata utilizzata dagli inquirenti la custodia cautelare, si limitava a fare riferimento alle opinioni di coloro che avevano accusato i magistrati milanesi di aver usato la custodia in questione come strumento di pressione per ottenere confessioni e delazioni e alle difese di questi ultimi, secondo i quali la stessa era stata usata esclusivamente per "limitare intimidazioni ed inquinamenti". Dopo di che la relazione si guardava bene dallo scendere, come suol dirsi, nel merito della questione e si concludeva con un rapido accenno alla "inevitabile asprezza del processo" ed ai "costi umani che esso talora comporta". E ciò benché nel corso dello stesso congresso vi fosse stato più di un accenno al fatto che nei processi in questione "la condizione per uscire dal carcere, checché se ne dica ed in qualunque modo si voglia ammantare tutto ciò, è aderire alla pretesa punitiva del pubblico ministero"(5) e che nelle stesse inchieste rarissimamente erano stati utilizzati gli arresti domiciliari, che pure garantivano dall'inquinamento della prova e dalla non ripetitività del reato.
La verità era che M.D. aveva deciso di non assumere nessuna presa di posizione pubblica sulla questione, nonostante gli "inconvenienti" che il silenzio portava con sé, inconvenienti puntualmente denunciati da Luigi Ferrajoli nel corso dello stesso congresso:
"Noi dobbiamo riconoscere che cadute di garanzie ci sono state... L'uso della carcerazione preventiva per ottenere la confessione, il ritorno all'arresto dei cosiddetti testimoni, o comunque di persone per supposte false informazioni al pubblico ministero, la deroga alle regole sulla competenza sia per territorio che per materia, l'invadenza giudiziaria, spesso in sfere riservate alla discrezionalità ammmistrativa..., il differimento continuo dei processi, dei dibattimenti, ormai persino l'abbandono, in molte proposte della soluzione politica, della prospettiva del dibattimento... Sarebbe stato molto opportuno che dall'interno della magistratura, della sua componente più avanzata, Magistratura Democratica, venisse un rifiuto a certi poteri impropri, magari anche approfittando del momento di popolarità di cui la magistratura gode. E questo non avrebbe che fatto crescere la credibilità della funzione giudiziaria. Certo noi possiamo dire che oggi il ceto politico scopre le garanzie dopo che le ha disprezzate per anni, possiamo dire che oggi ci si veste di questi nuovi panni, che tutto ciò non è credibile. Ma tutto questo non deve avere nessun rilevanza rispetto alle questioni di principio che sono in gioco e che non credo debbano condizionare il comportamento delle componenti avanzate della magistratura, delle persone libere che non hanno nulla di cui vergognarsi” (6).
Questi rilievi non hanno avuto echi. E nel convegno di M.D. svoltosi a Sasso Marconi nell'ottobre del 1994, il silenzio è stato ancora una volta presentato come una scelta obbligata, nonostante che lo stesso fosse sempre meno sostenibile. E non è mancato chi, alla fine del suo intervento, non ha trovato nulla di meglio che affermare che Tangentopoli aveva fatto "emergere (rectius conoscere a ceti sociali dapprima disinteressati e lontani) la durezza del carcere preventivo, anche se correttamente applicato"!(7)
Ancora una volta, anche su un terreno in cui sarebbe stato meglio che non affiorasse, si manifestava l'aspirazione "egualizzante" (democratica), in questo caso della custodia cautelare identica per tutti, mentre restava senza risposta la domanda, tutt'altro che peregrina, della legittimità della stessa, per pochi o per molti.
Sotto alcuni aspetti profetica era invece la relazione di Pepino per l'undicesimo congresso di M.D., svoltosi a Napoli alla fine di febbraio del 1996.
Il segretario generale pronosticava infatti per il futuro uno stabile conflitto tra il sistema politico e corpo giudiziario, quest'ultimo pudicamente indicato con il termine "giurisdizione" o addirittura "diritto", addirittura su scala europea:
"Se pur non mancano tensioni e sommovimenti, è peraltro verosimile, per l'Italia e per l'intera Europa, un futuro caratterizzato da estese zone di conflitto tra sistema politico e giurisdizione o, più esattamente, tra sistema politico e diritto. E' l'inevitabile conseguenza di alcune tendenze di questa politica: l'aumento della divaricazione tra poteri formali e poteri reali, la crescente compressione dei diritti sociali, la amministrativizzazione dell'agire politico. Lo spostamento del governo della società fuori delle sedi istituzionali è sempre più accentuato; la marginalizzazione del parlamento, del governo, delle stesse forze politiche è sotto gli occhi di tutti ; la tendenza del potere reale a collocarsi in sedi extra legali (invisibili o direttamente criminali, ma in ogni caso prive di controllo) è storia del nostro paese; l'affievolirsi del ruolo di strumento di regolazione dei rapporti sociali proprio del diritto è ormai stabile. Il contrasto tra tale situazione di fatto e il sistema delle regole è di tutta evidenza e ciò aumenta la centralità dell'intervento giudiziario a presidio (anche) della visibilità, trasparenza e controllabilità della politica. La compressione dei diritti sociali è presentata in modo martellante come prezzo da pagare alle ragioni dello sviluppo o della storia: inevitabili le ricadute sul rapporto giustizia/politica in un sistema in cui l'uguaglianza sostanziale è dato normativo, i principi di giustizia distributiva sono diritti e gli interventi per realizzarli atti dovuti".
Il segretario non mancava di spezzare una lancia anche in favore del "garantismo", ma di questo offriva una definizione alquanto deformata:
"La crescita della giurisdizione penale porta con sé, in termini di dover essere, una rinnovata centralità del garantismo, inteso come modello di stretta legalità e sistema predeterminato e rigoroso di garanzie per l'inquisito. Il vincolo delle regole, limite strutturale dell'intervento penale, si fa più stringente con l'aumento del potere della magistratura, sino a diventare l'ancoraggio fondamentale della sua legittimazione (nei momenti di grande consenso come in quelli di "disgrazia"). Essere custodi credibili delle regole implica assoluta lealtà nei loro confronti e non tollera né scorciatoie, in vista dei risultati possibili, né forzature sostanzialistiche. Il garantismo, lungi dall'essere concessione agli avversari della legalità o della democrazia, è esigenza della giurisdizione, ragione prima della sua indipendenza. Ciò si scontra non solo con ricorrenti prassi sostanzialistiche (riassunte nel dibattito giornalistico con un improprio richiamo al giustizialismo), ma anche con una sorta di crisi connotativa dello stesso termine 'garantismo', fonte di gravi confusioni ed ambiguità. Talune battaglie condotte sotto le sue insegne occultano infatti impostazioni che ne costituiscono la negazione. E' il caso delle posizioni che pretendono di vincolare alle regole la sola giurisdizione, proclamando contestualmente l'onnipotenza della maggioranza, l'incontrollabilità della politica, l'assenza di limiti per il mercato: questo neogarantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico) nulla ha a che vedere con un sistema di stretta legalità".
La relazione infine offriva una descrizione dei rapporti tra magistratura ed opinione pubblica che in pratica era una pura e semplice ratifica delle continue verbose (ed a volte anche strampalate) dichiarazioni rese alla stampa dai pubblici ministeri, dichiarazioni di cui sono piene le pagine dei giornali italiani negli ultimi anni:
"La centralità del rapporto tra magistratura ed opinione pubblica è nei fatti. Provvedimenti e decisioni dei magistrati non sono misurabili con il metro del pubblico gradimento; ma la giurisdizione deperisce. Al di là di contingenti fiammate di popolarità, se il suo esercizio complessivo non è sorretto da consenso sociale (se manca, in altri termini, la fiducia della collettività nei suoi giudici). Il problema, più che mai aperto, è quello delle strade per realizzare questa sintonia. E' diffusa anche tra i magistrati, fino a diventare leitmotiv dei discorsi inaugurali dei procuratori generali, una sorta di 'sindrome del passo indietro', alimentata da una acritica nostalgia per il riserbo perduto. Non credo che sia la strada giusta, almeno nel contesto italiano. La stagione del riserbo è stata espressione di una magistratura chiusa in un isolamento autoreferenziale e corporativo, diffidente nei confronti della passione e dell'impegno civile, legata ad una concezione astratta e formalistica dell'imparzialità (intesa anziché come estraneità personale del giudice agli interessi in gioco, come indifferenza ai valori).
Non è questo il modello di separatezza che può colmare il solco tra incomprensione e diffidenza che spesso separa collettività e magistrati. Il superamento di tale situazione richiede, al contrario, un rapporto intenso con la società, un dialogo franco e serrato con la pubblica opinione, una presenza visibile sulla scena culturale. Questa risalente convinzione di M.D. trova oggi una ulteriore conferma in un contesto in cui la giustizia e le sue modalità sono al centro del dibattito, in modo spesso superficiale e fazioso, l'assunzione da parte dei magistrati di una posizione di distacco aristocratico ed elitario non risponderebbe alle attese ed ai bisogni della società e sarebbe alla fine perdente. La realtà, ancor più se spiacevole, non sì esorcizza; occorre, piuttosto, governarla. In questa prospettiva, molte correzioni di tiro sono necessarie".(8)
La svolta dal "democratismo di classe", peraltro già abbondantemente intriso di pretese autoreferenziali, al "democratismo corporativo", in corso da tempo, ha avuto la sua manifestazione più evidente nel corso dell'anno 1997, l'anno della commissione parlamentare per le riforme costituzionali ( cosiddetta Bicamerale), quando il gruppo si rese conto di non poter più contare in modo aprioristico, come era avvenuto fino a quel momento, sul suo protettore di sempre, vale a dire i Democratici di Sinistra, nati sulle ceneri del P.C. I.
Istituita con legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1, essa svolse i suoi lavori per quasi un anno, ma non riuscì, per cause sulle quali non è qui il caso di soffermarsi, a conseguire l'obiettivo per il quale era stata pensata. Nel corso dei suoi lavori, tuttavia, molte delle questioni concernenti la magistratura vennero a lungo dibattute, in uno spirito di sostanziale consenso tra le diverse formazioni politiche, da Rifondazione comunista ad Alleanza nazionale.
Dopo essere stata preceduta da diverse bozze redatte dal relatore Marco Boato in corso d'opera, il testo di progetto di legge costituzionale sul sistema delle garanzie, trasmesso alla presidenza della Camera e del Senato il 4 novembre 1997, per ciò che concerneva la magistratura ordinaria, era composto da una serie di articoli compresi tra il 117 e il 133.
Il primo, dopo aver dichiarato che la giustizia era amministrata in nome del popolo, disponeva: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge. I magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni potere e godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Tali norme assicurano altresì il coordinamento interno dell'ufficio del pubblico ministero e il coordinamento, ove necessario delle attività investigative tra gli uffici del pubblico ministero".
L'art. 120, dal canto suo, disponeva: "Il Consiglio superiore della magistratura ordinaria si compone di una sezione per i giudici e di una sezione per i magistrati del pubblico ministero. Il diverso numero dei componenti di ciascuna sezione è determinato dalla legge... Il ministro della Giustizia può partecipare alle riunioni del Consiglio senza diritto di voto e presentare proposte e richieste".
L'art. 122, che regolava la materia disciplinare, era così formulato: "Spettano alla Corte di Giustizia della magistratura i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei giudici ordinari ed amministrativi e dei magistrati del pubblico ministero... La Corte è formata da nove membri, eletti tra i propri componenti dai Consigli superiori della magistratura ordinari e amministrativa". L'art. 123 dichiarava obbligatoria l'azione disciplinare e ne affidava l'esercizio ad un procuratore generale eletto dal Senato a maggioranza dei tre quinti dei suoi componenti tra coloro che avevano i requisiti per la nomina a giudice della Corte costituzionale.
L'art. 124, dopo aver stabilito che le nomine dei magistrati dovevano avvenire per concorso e previo tirocinio, stabiliva che tutti i magistrati ordinari avrebbero dovuto esercitare all'inizio funzioni giudicanti per un periodo di tre anni, decorsi i quali il Consiglio superiore avrebbe dovuto assegnarli alle funzioni giudicanti o requirenti, previa valutazione di idoneità. Il passaggio successivo tra l'esercizio delle funzioni giudicanti e quelle requirenti avrebbe potuto avvenire solo "attraverso un concorso riservato, secondo modalità stabilite dalla legge". In nessun caso le funzioni giudicanti penali e quelle di pubblico ministero avrebbero potuto essere svolte nel medesimo distretto giudiziario. L'art. 125 stabiliva che i magistrati del pubblico ministero si distinguevano tra loro soltanto per diversità di funzioni.
Gli articoli 129 e 130 fissavano le norme sulla giurisdizione. Il primo disponeva: "Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività. Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo...". Il secondo invece recitava: "La giurisdizione si attua mediante giusti processi regolati dalla legge, ispirati ai principi dell'oralità, della concentrazione e dell'immediatezza. Ogni processo di svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e davanti a giudice terzo. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel procedimento penale la legge assicura che la persona accusata di un reato sia informata nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa; abbia la facoltà di interrogare o di far interrogare dal suo difensore le persone da cui provengono le accuse a suo carico; abbia la facoltà di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a discarico nelle stesse condizioni di quelle dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita gratuitamente da interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata". Infine l'art. 132 stabiliva che il pubblico ministero aveva l'obbligo di esercitare l'azione penale e che, a tal fine, avrebbe dovuto avviare le indagini quando avesse avuto notizia di un reato.
Si trattava, come si vede, di norme che modificavano, anche se in maniera nient'affatto radicale, il sistema esistente, e che costituivano la espressione di un convincimento pressoché unanime dei membri della commissione.
I lavori di questa erano ancora in corso quando M.D, nel suo consiglio nazionale del 18 maggio 1997, bocciava senza appello tutte, nessuna esclusa, le proposte della commissione, tacciandole nientemeno che di attentato alla autonomia e alla indipendenza dei magistrati:

"Nella nuova bozza, continuano, insieme, ad essere coltivati progetti di riforma il cui effetto, se non anche il cui scopo, è quello di un forte ridimensionamento della funzione giudiziaria e di una limitazione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura... Quanto all'assetto del pubblico ministero, si insiste su ipotesi di struttura gerarchica dell'ufficio e sulla costituzionalizzazione di norme circa il passaggio da una funzione all'altra che dovrebbero trovare la loro collocazione nella legislazione ordinaria in tema di ordinamento giudiziario e che si risolvono di fatto nella separazione delle carriere. La stessa previsione di inserire non nell'art. 110, ma nell'art. 112 dedicato al pubblico ministero ed all'azione penale un comma relativo all'obbligo del ministro di riferire annualmente al Parlamento sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine finisce per prefigurare un rapporto 'speciale" in funzione di controllo che il ministro verrebbe ad esercitare sui pubblici ministeri, al di fuori del normale rapporto esistente con gli altri magistrati...Non ha senso modificare una costituzione per scrivere ciò che è già evidente in base a quella attuale, e la carta costituzionale deve costituire una tavola di valori chiari e inequivocabili, non un sistema di previsioni utilizzabili a seconda delle circostanze e delle maggioranze politiche di turno. L'ipotesi di sancire con norma costituzionale il dovere di riservatezza dei magistrati per un verso finisce per trasferire sulla Costituzione i compiti propri del legislatore ordinario e dei codici deontologici, per altro verso rischia di introdurre una pericolosa limitazione al diritto di manifestazione del pensiero, incidendo sulla prima parte della Costituzione che la Commissione bicamerale non può modificare... Magistratura Democratica esprime le considerazioni che precedono al fine di portare con pacatezza un contributo di razionalità politica e tecnica all'importante dibattito istituzionale in corso, che non può essere rinchiuso all'interno delle aule parlamentari o della Bicamerale, ma deve essere esteso a tutte le sedi ed a tutti i cittadini, nella consapevolezza che sono in gioco i fini e i valori della giustizia, non la difesa di privilegi corporativi o l'arroccamento su posizioni di mera conservazione dell'assetto esistente. La cultura democratica è fatta anche di dialogo e capacità di ascolto".(9)
In questo modo, la "democrazia" veniva utilizzata per negare al Parlamento ogni potere di legiferare in materia di giustizia ( lo stesso spettando, secondo i giudici di M.D., a tutti i cittadini, sul modello, verrebbe da chiedere, dell'assemblea ateniese ?), celando , attraverso questo ultrademocraticismo di facciata, l'obiettivo, volgarmente corporativo, della difesa dello “ status quo,, con tutti i suoi limiti e le sue confusioni di ruoli.
Il solito Pepino, dal canto suo, non esitava a ricollegare il progetto della Commissione a...Lido Gelli ed alla P2:
"La proposta assai più seria e motivata, è il coerente corollario di una concezione del potere come realtà unitaria che non può prescindere da una magistratura ad essa omogenea (rectius di essa partecipe). E' l'impostazione antitetica a quella della Costituzione del 1948 (fondata sul policentrismo istituzionale, sulla separazione e i controlli reciproci dei poteri), emersa, alla perenne ricerca di una rivincita, in tutti i momenti di più acuta frizione tra giustizia e politica che hanno caratterizzato il dopoguerra... La proposta in tal senso presentata alla Commissione bilaterale non è né nuova né isolata...Due esempi, tra loro assai diversi per provenienza e contesto, sono al riguardo sufficienti: Primo: Si legge nel Piano di rinascita democratica di Licio Gelli ecc: ".
Il secondo esempio invece era costituito da un documento, proposto dagli Amici di Liberal che sosteneva la separazione delle funzioni tra p.m. e giudici, il cambiamento del sistema di elezione del Consiglio superiore e il reale funzionamento della obbligatorietà dell'azione penale. (10)
Toni ancor più radicali ricorrevano in un volantino a stampa di M.D.del 5 aprile 1997:

"Il testo in esame contiene infatti un progetto di vero e proprio sovvertimento del sistema giustizia previsto dalla Costituzione del 1948, sostituito con un assetto in cui spiccano il ridimensionamento della funzione giudiziaria, l'indebolimento della indipendenza della magistratura e lo scadimento dello status sociale dei magistrati... Il rischio di interventi riduttivi degli spazi di controllo della magistratura è un rischio per i cittadini assai più che per i magistrati. Per questo preoccupano i toni concilianti che hanno accolto la bozza dell' on. Boato. Di qui la necessità che la magistratura associata e le sue componenti intervengano nel dibattito politico... L'obiettivo da perseguire è il completamento di un percorso incompiuto (!) verso l’indipendenza e il rigore professionale, non il suo azzeramento con ripristino di vecchi modelli... Tutti i magistrati, giovani e meno giovani, devono essere consapevoli che questa è, mai come oggi, la posta in gioco".
Alle voci degli organi rappresentativi del gruppo si aggiunsero nell'occasione anche quelle di alcuni suoi "padri nobili". E. Bruti Liberati scrisse su "L'Unità" del 5 aprile 1997 che sul punto occorreva "lealtà e chiarezza" e che:
"il nostro sistema di indipendenza non è l'unico possibile al mondo, né necessariamente il migliore. Ma in un contesto come il nostro, in cui non si è mai radicato un costume civile di rispetto della indipendenza della magistratura, un sistema di rigide garanzie formali è indispensabile... Questo C.S.M. e questo P.M., se passerà l'impostazione della relazione Boato, non esisteranno più: i nuovi assetti portano come segno caratteristico la ripresa del controllo politico sulla magistratura. E ciò avviene proprio mentre ci si avvia ad un sistema politico maggioritario e con rafforzamento dell'esecutivo: quelle caratteristiche dell'organizzazione politica che, secondo i principi più classici della democrazia, esigono una ancor più forte capacità di controllo indipendente sull'esercìzio del potere".
Il fallimento della Bicamerale fece tirare a Magistratura Democratica un respiro di sollievo, senza tuttavia che la stessa recedesse di un millimetro dalle sue posizioni.

Ad esempio, quando il Parlamento decise di procedere, in questo sulle orme della bozza redatta dall'on. Boato per la Bicamerale, alla modifica dell'art. 111 della Costituzione, eliminando dall'ordinamento giuridico italiano la norma, degna dei processi di antico regime e in esso introdotto per vie surrettizie, secondo la quale una persona poteva essere penalmente condannata soltanto in base a dichiarazioni rese in segreto ai pubblici ministeri, senza il diritto di interrogare ( o far interrogare) in un pubblico dibattimento colui che la accusava, Magistratura Democratica, invece di esultare per questo ritorno ad un processo penale "civile", pur riconoscendo a denti stretti che la norma precedente non andava bene, ebbe a sollevare una serie di critiche sulla nuova formula dell'art. 111, che sostanzialmente davano la non infondata impressione che il gruppo nutrisse un certo rimpianto per lo stato di cose preesistente.(11)
La maggiore "tranquillità" del gruppo, garantita dalla fine non molto gloriosa della Bicamerale e dal venir meno dei progetti di riforma da essa elaborati, consentì a M.D. nel suo dodicesimo congresso, svoltosi a Genova alla fine di aprile 1998, di attenuare per un momento, le accuse di attentato alla indipendenza ed alla autonomia della magistratura e di ritornare ad un altro dei suoi temi soliti da qualche tempo in qua, vale a dire la strenua difesa della legalità dal punto di vista penalistico. Nella mozione conclusiva del congresso, infatti, si affermava:
"Le vicende di questi ultimi anni hanno evidenziato l'esistenza nella società italiana di una profonda crisi di legalità che si è manifestata e continua a manifestarsi principalmente nella presenza di una forte criminalità organizzata e di una estesa criminalità politico-amministrativa ed economica. Questa crisi pervade tutta la società e i comportamenti dei singoli, come è dimostrato da fenomeni di massa, quali l'evasione fiscale, caratteristica di una buona parte del ceto medio produttivo, e il dissesto dell'ambiente, conseguenza dell'abusivismo edilizio e dell'inquinamento da attività produttive, e più in generale, dalla scarsa considerazione per le regole nelle diverse manifestazioni della vita quotidiana... I procedimenti penali nei confronti della corruzione politica, della criminalità economico finanziaria, della corruzione giudiziaria e della mafia sono stati e sono momento essenziale ed imprescindibile dell'azione complessiva per l'affermazione della legalità... Negli ordinamenti fondati su una costituzione rigida, quale è il nostro, legalità è innanzi tutto conformità alle norme costituzionali. Ciò estende al potere legislativo il principio di legalità, nel senso che anche il potere legislativo è soggetto alle norme costituzionali che ne disciplinano l'esercizio e ne fissano i limiti, con conseguente controllo di costituzionalità, affidato alla Corte costituzionale... L'esigenza di attuare la carta del 1948 va ribadita, a fronte delle pretese costituenti che animano le riforme istituzionali proposte in Italia, in un quadro più generale di crisi della funzione regolativa del diritto moderno, schiacciato dalle spinte deregolative provenienti dalla trasformazione economica globale e dunque di rischio per la democrazia costituzionale, di fronte alla capacità prevaricatrice del mercato. Le proposte di riforma istituzionale svelano, da tal punto di vista, la debolezza del politico di fronte all'imperativo dell'economia ed il loro carattere autoreferenziale, mentre l'impegno di M.D. a difesa della legalità costituzionale e per una nuova politica attuativa della Costituzione del 1948 è ispirato da una concezione della democrazia che si sottragga al mero imperativo economico e sia capace di agire, anche attraverso gli strumenti del diritto e di una giurisprudenza garantistica sul piano delle diseguaglianze sostanziali"(12).
Come si vede, non solo veniva di nuovo pesantemente criticato il tentativo della Bicamerale di riscrivere alcune regole costituzionali, ma le critiche erano accompagnate da un programma che non aveva nulla da invidiare a quello di un partito politico. Alla fine di novembre 2000 ebbe luogo a Venezia il tredicesimo congresso di M.D.
Il segretario generale Vittorio Borraccetti nella sua relazione questa volta non esitò a puntare il dito accusatore direttamente contro una persona, Silvio Berlusconi, ritenendolo la causa di tutti i mali che affliggevano il paese:
" Per quanto si possa essere delusi e critici della politica della sinistra in materia di giustizia (e non solo), non si può sostenere che nel nostro paese oggi siano poco significative le differenze tra gli schieramenti contrapposti. E ciò anche se è vero che, dopo i rivolgimenti degli assetti internazionali degli ultimi dieci anni, c'è una crisi di identità della sinistra e una discussione aperta su cosa debba essere e su quali debbano essere i contenuti della sua proposta politica... Al rischio della personalizzazione della politica, conseguente alle difficoltà di quest'ultima, si aggiunge poi, in Italia, il rischio di una anomala concentrazione di potere in capo al leader della coalizione di centro¬destra, proprietario di metà del sistema televisivo nazionale. V'è cioè una clamorosa violazione delle regole minime di ogni democrazia liberale, colpevolmente trascurato dalle forze politiche, in particolare da quelle del centro sinistra. Il conflitto di interessi dell'on. Berlusconi pesa come un macigno sulla democrazia italiana e non conta nulla che sondaggi demoscopici indichino un'opinione pubblica da ciò non troppo scandalizzata: le regole della democrazia non sono materia di sondaggi. Ha pesato e continua a pesare anche il conflitto di interessi dell'on. Berlusconi in materia di giustizia: la generalità delle posizioni assunte da Forza Italia risente delle vicende giudiziarie di alcuni esponenti politici di quel partito. In democrazia il confronto tra destra e sinistra è nelle cose e l'avvicendamento al governo è fisiologico, senza che ne debbano derivare traumi istituzionali. In un paese normale, unito intorno ai valori di fondo della propria convivenza, non ci sarebbe da temere neppure per la sostanza dell'indipendenza della funzione giudiziaria. Ma alcune circostanze che connotano questo schieramento di centro destra legittimano consistenti preoccupazionj per l'ipotesi che esso vada al governo. Innanzi tutto l'anomalia del conflitto di interessi; poi la presenza nello schieramento di componenti politiche, pur minoritarie, che si richiamano esplicitamente al fascismo e di componenti esplicitamente xenofobe; e, ancora, per il fatto che, nel suo insieme, esso tende a mettere in discussione i fondamenti dell'attuale assetto costituzionale, adoperando a tal fine, specie nel suo leader, una demagogia fondata su parole d'ordine semplificanti ed accattivanti che assecondano gli istinti meno nobili del corpo sociale. Così si sta operando da tempo una rilettura strumentale delle vicende del nostro paese, dal Risorgimento, alla Resistenza, a Tangentopoli, alla lotta alla mafia, che ha solo uno scopo: delegittimare l'assetto costituzionale della nostra convivenza. E non è un caso che tra i principi fondamentali presi di mira vi siano quelli che riguardano l'autonomia e l'indipendenza della funzione giurisdizionale"(13).
Una relazione, come si vede, che non si differenzia in nulla da una relazione ad un congresso di partito, per di più dal tono più di sinistra di quelle teoricamente ascrivibili a tutti i partiti esistenti nello schieramento politico italiano.
Se questo era il giudizio che M.D. dava di Berlusconi quando era all'opposizione, non c'è da meravigliarsi di quello dato dopo che lo stesso ebbe vinto le elezioni. Un editoriale di "Questione Giustizia" del 14 gennaio 2002 si esprimeva al modo che segue:
"Il diritto violato non è solo quello internazionale (il riferimento è alla guerra in Afghanistan). E' in atto in Italia uno scontro durissimo sulla questione delle regole e della legalità. Il rifiuto del presidente del Consiglio e di alcuni potenti politici del suo entourage di accettare, anche per sé, le regole poste per tutti i cittadini (prima fra tutte la sottoposizione al controllo giudiziario di comportamenti potenzialmente illeciti) sta scardinando le basi stesse dello Stato di diritto.. La prima fase di questa operazione è risalente: delegittimare i magistrati, pubblici ministeri e giudici, ormai senza distinzione, per paralizzare le ricadute di eventuali sentenze sgradite (additate sin da ora, con una ossessiva campagna mediatica, come atti di ostilità politica, anziché come accertamenti imparziali). La seconda fase, sempre più evidente in questi mesi, è la realizzazione della giustizia a due velocità, debole con i forti e forte con i deboli: le vicende del falso in bilancio e delle rogatorie svizzere sono state solo le prime di un elenco che si arricchisce quotidianamente di nuovi capito(dall'attacco allo statuto dei lavoratori alle proposte di modifica della legge sull'immigrazione, dalle prime modifiche del codice penale al rilancio di una strategia di zero tolerance nel settore degli stupefacenti). E si è, infine, arrivati, all'intervento diretto sulla giurisdizione e sui processi..."(14).
Infine, ultima tra le manifestazioni di attacco all'attuale governo, che contraddistinguono M.D., la relazione letta dal segretario generale Claudio Castelli al 14° congresso, svoltosi a Roma alla fine di gennaio 2003. In essa, tra l'altro, si legge:
"Il tema della legalità, della lotta al crimine organizzato e della trasparenza dei rapporti tra pubblico e privato sembra scomparso dai taccuini della politica: Mentre una notevole percentuale dei processi scaturiti dalle indagini condotte negli anni '90 si conclude con la prescrizione, nessuna misura viene presa per rendere più difficile la commissione dei reati e più facile la loro scoperta... In questo contesto si assiste ad un vero e proprio 'attacco ai diritti'. Ad essere messi in discussione sono il diritto di cittadinanza (inteso come tutela di un livello di vita dignitoso per tutti), il pluralismo dell'informazione, la scuola e la sanità pubblica. E' sui diritti sociali e sul lavoro che lo scontro si è fatto più aspro: la prospettiva sembra essere quella dell'accantonamento delle garanzie di tutela apprestate dallo Stato sociale e di una privatizzazione generalizzata. Alla contrazione dello Stato sociale poi corrisponde l'esaltazione della tolleranza zero, come dimostrano tra l'altro le politiche nel settore degli stupefacenti e della tossicodipendenza, in cui l'accantonamento delle prospettive di accoglienza e di riduzione del danno apre la strada ad un revival del modello esclusivamente repressivo. Si colloca qui anche la legge Bossi-Fini, portato di pregiudizi razzistici, spinte securitarie e parole d'ordine tanto demagogiche quanto inidonee a governare un fenomeno sociale imponente... che, attraverso l'accentuazione dei processi di precarizzazione/amministrativizzazione della condizione giuridica degli stranieri indotta dalle nuove in tema di soggiorno e di allontanamento, sarà spinta verso una dimensione sempre più marcatamente servile... Questa strategia di ritorno al passato ha come manifestazioni, a fianco della progettata riforma ordinamentale e della riduzione per i magistrati del diritto a manifestazione del pensiero, la progressiva riduzione del processo a contesa, in una sorta di darwinismo processuale in cui la ragione non dipende dai fatti, dalle prove o dalle argomentazioni, ma dalla forza delle parti e, in definitiva, dalla loro ricchezza o potenza".
Non mancava infine nella relazione anche un riferimento fortemente critico all'operato della Bicamerale. Questa, secondo il segretario generale di M.D., aveva rappresentato "un momento di crisi della politica come progetto generale e il trionfo della politica ridotta a semplice tecnica normativa", nel quale da un lato sembrava "smarrirsi il senso della Costituzione in senso lato", dall'altro maturava l'idea che esistesse "un primato della rappresentanza politico-parlamentare come tale " e che tutto il resto dovesse, in "un modo o nell'altro, obbedire alle regole della maggioranza"!(15)
Le lunghe citazioni di brani di documenti ufficiali di Magistratura Democratica non sono stati inutili. Esse dimostrano infatti che il gruppo, pur nelle diverse fasi della sua storia, si è mosso sempre o in coerenza con i suoi postulati di partenza. Dominato da ideologia "egualizzante" sin dalla sua nascita, con questa, all'inizio, avevano convissuto anche aspirazioni garantistiche. Quando alcuni suoi esponenti, chiamati a ricoprire posizioni di notevole rilievo istituzionale, si sono mossi con prassi scarsamente attenti rispetto a tali aspirazioni, il gruppo si è schierato compatto dietro di loro in tutte le sue dichiarazioni pubbliche. Questo tuttavia, ad un certo punto è sembrato non bastare più. Quando il sistema politico nella sua totalità ha dato l'impressione di volersi muovere per impedire che il "decisionismo democratico" travolgesse ogni barriera, M.D. ha innalzato una nuova bandiera, da lei fino a quel momento trascurata (anche perché non molto armonizzabile con la sua politica delle origini), e cioè quella, corporativa, della difesa ad ogni costo della autonomia e della indipendenza, ritenendo, non a torto dal suo punto di vista, che questo era l'unico modo per difendere quelle prassi. La comparsa di Silvio Berlusconi sulla scena politica, le sue vicende giudiziarie e la durezza con la quale l'attuale premier si è difeso dentro e fuori i processi hanno fatto il resto, rendendo l'operazione "democratico-corporativa", già avviata all'inizio degli anni Novanta e conclusasi allora trionfalmente per la magistratura, ancor più credibile sia sul piano interno che su quello esterno, inducendo molti a dimenticare le "sollecitazioni" che la stessa, per avere successo, era stata costretta a fare al sistema normativo esistente.
Si pensi, ad esempio, al ricorso alla carcerazione preventiva per ottenere confessioni e chiamate di correo; all'uso dei "pentiti" ed alle manifestazioni di trionfalismo ogni qual volta essi avessero pronunciato i nomi di Giulio Andreotti e di Silvio Berlusconi; alla difesa del principio illiberale della non necessità del contraddittorio dibattimentale; al sapiente uso delle indiscrezioni giornalistiche al fine di "rafforzare" le indagini nella fase istruttoria o addirittura alle critiche rivolte dai pubblici ministeri ai tribunali che avevano assolto i "loro" imputati; alle accuse al sistema politico nella sua totalità; alle esternazioni contro governi ritenuti "nemici" in occasione di cerimonie istituzionali, alla creazione per via giurisprudenziale di nuove ipotesi di reato (il concorso esterno in associazione mafiosa ad esempio) e via discorrendo. Su tutti questi argomenti, che pure sono stati al centro dell'attenzione anche di giuristi sicuramente "non sospetti", Magistratura Democratica ha sempre mantenuto un assordante silenzio. Mai infatti nessuna voce si è mai alzata per invitare ad abbassare i toni, a ricordarsi che la giustizia è un servizio pagato da tutti e da rendere a tutti allo stesso modo, senza dividere il mondo in "amici" e "nemici", (i quali ultimi avrebbero tutto il diritto di protestare qualora, schierati in un certo modo, fossero chiamati a comparire davanti a giudici, ufficialmente e pubblicamente schierati in modo diverso) e ad una interpretazione delle norme che ponesse sullo stesso piano eguaglianza e libertà e non fosse invece totalmente sbilanciata a favore della prima.
Magistratura Democratica, evidentemente, riteneva di non avere più bisogno di garantisti, interni o collaterali, salvo che per utilizzarli come icone nei congressi e nelle cartoline natalizie di auguri. Quanto alla sostanza, la parola, da tempo, spettava soltanto ai decisionisti che, a seguito del loro concreto operare nella quotidiana attività giudiziaria, si erano assicurati il diritto di essere i protagonisti assoluti nei congressi, nei dibattiti pubblici, nelle riviste.
Indubbiamente, la linea adottata dalla leadership del gruppo è stata finora vincente. Essa ha infatti consentito di accrescere i suffragi all'interno del corpo giudiziario, di ottenere un successo alle ultime elezioni del Consiglio superiore della magistratura, ed ha assicurato una continua presenza sulle pagine di quotidiani e settimanali. Assai meglio organizzata delle altre correnti della magistratura, meglio attrezzata sul piano culturale, M.D. ormai rappresenta sostanzialmente l'unica voce della magistratura italiana, dopo che è riuscita ad arruolare sotto le sue nuove bandiere della indipendenza e dell'autonomia la grandissima maggioranza dei magistrati, compresi tra questi molti che mai avevano condiviso le ragioni per le quali M.D. era nata e la sua ideologia, ma che sono stati attratti dal suo dinamismo e dalle sue parole d'ordine.
Il fatto, tuttavia, di parlare ormai a nome dell'intera magistratura italiana, è per il gruppo anche fonte di rischi.
Il più importante di questi è costituito dalla possibilità, sempre presente, che il sistema politico nella sua totalità ritorni a comportamenti del tipo della Bicamerale e si renda conto che non è più tollerabile che un gruppo di magistrati agisca come un partito politico, che, per di più, alle volte si muove su posizioni antagonistiche nei confronti del sistema stesso. Una parte di questo sistema, non avendo mai abbandonato del tutto il mito della via giudiziaria al potere, si è sempre mossa in soccorso del gruppo, ogni qual volta questo è apparso in difficoltà e ne è stato ripagato con un sostanziale allineamento sulle sue posizioni. Ma anche questa parte, se si dovesse rendere conto che la difesa dei magistrati democratici può essere pericoloso per le sue sorti, probabilmente non esiterebbe ad abbandonarli alla loro sorte.

Dal terreno della storia, sia pure contemporanea, siamo stati costretti a scendere a quello, assai meno "neutro" della cronaca.
Una simile "perdita di qualità" era tuttavia inevitabile, considerato che questo saggio non si occupa solo del passato di M.D., ma mira anche a mostrare come questo gruppo di giudici si sia allontanato, non è chiaro se per volontà o per insipienza, da quel passato ed avventurato invece su un terreno alquanto diverso ed assai pericoloso.
Che se ne sia allontanato è al di là di ogni ragionevole dubbio. Alle sue origini, come si è tentato di dimostrare, la sua era una ideologia da "sinistra utopica", in cui ricorrevano i termini di "classe", "borghesia", "potere", utilizzati per identificare un avversario così sfumato da essere difficilmente identificabile. Il loro impiego denotava propensioni populistiche e pulsioni in qualche caso addirittura anarchiche, entrambe tuttavia riscattate dall'aspirazione ad un diritto che, lontano dal formalismo giuridico tradizionale, potesse realizzare o tentasse di realizzare alcuni postulati egualizzanti presenti, oltre che in quasi tutte le carte costituzionali, anche nella coscienza collettiva del paese.
Tale aspirazione inoltre investiva tutte le branche del diritto (da quello del lavoro a quello della famiglia, dell'ambiente ecc.), mentre nutriva più di un dubbio sulla possibilità di un uso "alternativo" del diritto penale, in considerazione sia del suo stretto legame con le "maniere forti" sulla persona, sia del rifiuto allora molto diffuso nei confronti degli apparati coercitivi di stato ( polizia, carcere, manicomio).
Infine, anche se una parte del gruppo aveva un referente forte, quello del partito comunista, la lontananza di questo dal cuore del potere impediva che qualcuno potesse pensare, sulla base di prove o indizi certi, che dietro l'utopismo si nascondessero sentimenti diciamo così meno nobili. Con la svolta descritta nelle pagine precedenti, le cose sono radicalmente mutate ed i sospetti si sono ingigantiti.
Magistratura Democratica non identifica più i suoi "nemici" in modo indifferenziato (e con parole tutto sommato così generiche tali da poter essere digerite da tutti, sol che abbiano un minimo di buonsenso), ma opera in modo selettivo.
Non più tutta la classe politica va guardata con il disfavore del passato, ma soltanto una parte di essa, contro la quale, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, il gruppo scaglia i suoi anatemi. E poco gli importa che questa "parte" sia quella che, ottenuta la maggioranza nelle elezioni, stia attualmente con piena legittimità al governo del paese. Per il che si assiste ad un fatto più unico che raro nella storia delle democrazie rappresentative: i giudici, i quali, per definizione, dovrebbero essere al di sopra ed indifferenti alle parti che si contendono i consensi sul piano politico, si schierano con estrema decisione contro una di queste, definita come pericolosa, poco onesta, illiberale, partito-azienda e che più ne ha più ne metta.
In questo modo Magistratura Democratica va molto al di là della tendenza, che pure è diffusa in tutti i paesi di democrazia liberale, dei giudici ad allargare i loro poteri a scapito dì quelli politico ed amministrativo e si pone essa stessa come una guida politico-giudiziaria per l'intero paese.
Questa scelta, di giocare un ruolo politico in prima persona, potrà sembrare a qualcuno "entusiasmante" ed innovativa. Alla lunga, tuttavia, essa non potrà non rivelarsi per quella che realmente è, vale a dire un uso improprio dell' associazionismo giudiziario a fini politici, uso che nessun sistema politico è in grado di tollerare, neppure uno come quello italiano, da tempo abituato a convivere con più di una contraddizione. Se poi questo uso improprio politico da parte del gruppo si salda, come è avvenuto, nella coscienza dei cittadini prima che nella realtà, con il sospetto di un uso improprio da parte di magistrati aderenti al gruppo, della loro azione professionale contro coloro che lo stesso gruppo ha nella sua pubblicistica provveduto ad identificare come "avversari", allora i rischi diventano ancora più gravi. Un comportamento del genere potrebbe infatti portare, in ipotesi estrema, ad una vera e propria rottura costituzionale, con tutto quello che ne conseguirebbe, non esclusi moti di piazza.
Su questo Magistratura Democratica dovrebbe riflettere a fondo. Se non dovesse farlo e dovesse invece continuare sulla strada sin qui seguita del "corporativismo antagonistico", essa potrebbe a buon diritto essere considerata un pericolo per lo stesso sistema democratico-rappresentativo nel quale la grandissima maggioranza degli italiani aspira a continuare a vivere.
Romano Canosa
Magistrato
Milano, 2004

Note:
1) R. Canosa Storia della magistratura in Italia. Da piazza Fontana a Mani Pulite, Baldini e Castoldi, Milano, 1996, p.15 e ss.
2) S. Senese Democrazia, sovranità popolare e giurisdizione in "Questione Giustizia", 1987, p. 429 e ss.
3) F. Ippolito Realtà e prospettive dell'associazionismo giudiziario alla soglia degli anni '90 in "Questione Giustizia", 1989, p. 1007 e ss.
4) L. Pepino Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia maggioritaria in "Questione Giustizia", 1993, p. 237 e ss.
5) "Il Passaggio", novembre-dicembre 1993, p. 19
6) Ibidem, p. 16 e ss.
7) L. Pepino II processo penale a cinque anni dalla riforma. L'analisi di Magistratura Democratica in "Notiziario di Magistratura Democratica", dicembre 1994, n. 56, p. 11
8) L. Pepino Compiti della polìtica e  doveri della giurisdizione in "Questione giustìzia", 1995, p. 751 e ss.
9) "Notiziario di Magistratura Democratica, n. 18, p.19 e ss.
10) L. Pepino Progetti e prospettive di riforma in materia di garanzie in "Questione Giustizia", 1997, p. 109 e ss.
11) Vedi Obiettivo 1. Prime riflessioni su riforma costituzionale e giusto processo in "Questione Giustizia", 2000, p. 47 e ss.
12) "Notiziario di Magistratura Democratica", n. 21, p. 23 e ss.
13) V. Borraccetti Diritto, giurisdizione, e democrazia. Per una tutela effettiva dei diritti (p. 10 e ss. Della relazione a stampa)
14) "Questione Giustizia", 2002, p. V e ss.
15) C. Castelli La forza dei diritti. 10 tesi per Magistratura Democratica in "Questione Giustizia", 2002, p. 1173 e ss.



 
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